Il contratto di locazione è individuato nel codice civile (cfr. art. 1571 c.c.) quale tipico contratto di durata: esso, infatti, è definito come il contratto con cui una parte, detta locatore, si obbliga a far godere all’altra parte, ossia al conduttore (o locatario), una cosa mobile o (più spesso, nella prassi sociale) immobile, verso un determinato corrispettivo (il canone), per un determinato periodo di tempo. Ne deriva che l’elemento temporale è destinato ad avere fisiologico impatto sulle vicende del contratto, esposto alle sopravvenienze che, intervenendo in corso di rapporto, incidono sulle prestazioni delle parti e dunque potenzialmente sul sinallagma negoziale.
Nella recente normativa emergenziale adottata al fine di far fronte all’emergenza Covid-19, il ns. Legislatore ha codificato una disciplina speciale concernente i contratti di locazione cd. commerciale (i.e. aventi ad oggetto immobili adibiti allo svolgimento di attività commerciali, industriali, artigianali, commerciali), che tuttavia – incidendo solo indirettamente sul rapporto negoziale posto in essere tra locatore e conduttore – non risulta idonea a dare soluzione alle sopravvenienze che impattino immediatamente sul contratto. In particolare, l’art. 65 del D.L. n. 18/2020 prescrive una mera agevolazione tributaria in favore dei conduttori di “botteghe e negozi”, disponendo in favore di costoro “un credito d’imposta pari al 60% del canone locatizio” dovuto pel mese di marzo. Tale normativa, all’evidenza, non produce alcun effetto sulle prestazioni dovute dalle parti, le quali – in considerazione del menzionato dispositivo – devono comunque adempiere alle proprie obbligazioni, pena – apparentemente – l’incappare nell’inadempimento e nelle conseguenti sanzioni della responsabilità civile.
Ora, se da una parte l’emergenza Covid-19 – ad uno col conseguente blocco forzoso pressoché totale delle attività produttive ed economiche – non sortisce problemi di sorta in relazione alla prestazione del locatore (il quale, secondo il dettame di legge, adempie alla propria obbligazione sostanzialmente garantendo la disponibilità dell’immobile oggetto del contratto al conduttore), per altro verso medesima cosa non può dirsi con riferimento alla prestazione pecuniaria del conduttore, adempiuta – secondo assoluta prevalenza statistica – proprio in virtù degli introiti derivanti da quella stessa attività commerciale, incardinata nell’immobile oggetto del negozio, costretta alla chiusura provvisoria dalla legislazione emergenziale.
Quid agit, dunque? Se quanto sopra esposto costituisce irrefutabile premessa, dobbiamo a questo punto domandarci se, in caso di sopravvenienze potenzialmente mortificanti la prestazione del conduttore commerciale (recte, la possibilità dello stesso di adempiere a tale prestazione), ci troviamo di fronte ad una lacuna normativa incolmabile (con conseguente sanzione della responsabilità civile), ovvero se risulta possibile, comunque, pervenire ad un’interpretazione della Legge che individui una soluzione più equa e giuridicamente condivisibile.
Ebbene, in questo blog, abbiamo già dato conto della disposizione introdotta nel nuovo comma 6-bis dell’art. 3 D.L. n. 6/2020 dal Legislatore emergenziale mediante l’art. 91 del D.L. n. 18/2020 (‘Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici’). La norma prevede testualmente che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Tale disposizione individua una ‘causa di giustificazione’, speciale e contingente rispetto alle disposizioni del codice civile, che rende non imputabile e quindi scusabile il ritardato o mancato adempimento delle obbligazioni, a condizione che tale inadempimento sia conseguenza delle misure autoritative per il contenimento dell’epidemia.
Tuttavia, secondo la tesi dottrinale più accreditata, la suindicata ‘scriminante’ civilistica può legittimamente operare solo allorché l’inadempimento consegua direttamente ed immediatamente, ovverosia secondo un rapporto eziologico causa-effetto immediato e diretto, alla legislazione emergenziale anti-Covid19, che si atteggia in tale contesto alla stregua di ‘factum principis’. E, aderendo a tale (condivisibile) tesi, la clausola di salvaguardia in esame non potrebbe essere validamente rivendicata dal conduttore commerciale inadempiente, in considerazione del fatto che le misure emergenziali non incidono – se non in modo solo mediato – sulla prestazione dovuta dal conduttore, la quale, infatti, essendo di matrice pecuniaria, non può come noto annoverarsi tra quelle suscettibili di impossibilità oggettiva (alla luce della piena fungibilità del suo oggetto, i.e. il denaro).
Occorre però dar conto anche di un differente orientamento, certamente più rispondente ad esigenze contingenti di equità, seppur non del tutto aderente al dato normativo, e pur tuttavia talvolta sostenuto con assoluta autorevolezza¹. In sostanza, si ritiene da alcuni che la ‘clausola di salvaguardia’ di cui all’art. 91, D.L. n. 18/2020 possa essere interpretata in modo estensivo, di modo che, durante il periodo di epidemia Covid-19 – recte, sotto la vigenza delle misure emergenziali che hanno imposto la chiusura delle attività commerciali – possa ritenersi giustificato, almeno parzialmente, il mancato pagamento del canone da parte del conduttore commerciale, con esclusione dell’insorgere di morosità idonee a fondare la risoluzione del contratto, a causa della richiamata situazione pandemica contingente. Si tratterebbe pertanto di una ipotesi straordinaria di impossibilità – temporanea – della prestazione per causa non imputabile al debitore: segnatamente, i provvedimenti emergenziali integrerebbero un factum principis astrattamente idoneo a comportare l’oggettiva impossibilità – sopravvenuta – della prestazione contrattuale dovuta, ai sensi dell’art. 1575 c.c., ad opera del locatore, il quale non sarebbe più in grado di “mantenere la cosa locata in istato di servire all’uso convenuto”. All’atto pratico, il conduttore commerciale evocato in giudizio dal locatore, il quale gli abbia intimato lo sfratto per morosità a’ fini di convalida, potrebbe validamente eccepire nel relativo procedimento sommario la circostanza che l’inadempimento si è verificato a causa – recte in connessione alle misure adottate per il contenimento dell’epidemia del coronavirus, ed impedire così la pronuncia di convalida.
Per quanto l’ultima delle tesi esposte risulti certamente più rispondente ad istanze di equità sociale, soprattutto in considerazione del difficile periodo che stanno vivendo gli imprenditori interessati dalle misure straordinarie di contenimento epidemico – incappati, quale conseguenza accidentale della legislazione emergenziale, nel crollo del fatturato e degli incassi – ritengo una forzatura giuridica applicare sic et simpliciter l’istituto dell’impossibilità sopravvenuta alle vicende locatizie aventi ad oggetto beni immobili destinati ad uso commerciale. Non v’è dubbio, infatti, che le prestazioni strettamente intese derivanti dal contratto di locazione – sia esso stato perfezionato per fini commerciali che abitativi – rimangono pacificamente possibili e suscettibili di astratto adempimento da parte di entrambi i contraenti: certamente il locatore non avrà problemi a mantenere la res locata in stato da servire all’uso convenuto, nonché a garantirne il pacifico godimento in favore del conduttore; così come quest’ultimo non sortirà difficoltà, astrattamente, ad adempiere alla propria obbligazione pecuniaria, in quanto obbligazione pienamente fungibile.
Mi sembra molto più ragionevole – oltre che conforme ai più recenti criteri ermeneutici della disciplina delle obbligazioni – reinterpretare anche il rapporto locatizio alla luce del principio generale di correttezza e buona fede oggettiva, che – quale declinazione diretta del precetto costituzionale di cui all’art. 2 Cost. (disponente tra l’altro in capo a ciascun cittadino l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (politica, economica e) sociale) – assurge oggi a fonte primaria d’integrazione della convenzione negoziale.
In ottemperanza ai suindicati doveri di solidarietà sociale, il locatore di un contratto di locazione commerciale – siccome contratto fisiologicamente esposto all’incidenza di sopravvenienze che, pur non contrattualizzate né astrattamente riconducibili all’alveo applicativo dell’art. 1467 ss. c.c. (rilevante solo per le sopravvenienze comportanti squilibri economici del sinallagma iniziale) mortificano (in ipotesi anche solo parzialmente) la causa concreta che ha costituito motivo di perfezionamento dello stesso contratto da parte del conduttore – ha l’obbligo, in virtù del principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie, di rinegoziare le condizioni contrattuali – ad es. ipotizzando sospensive di pagamento, oppure riduzioni rateali del canone – anche solo in via provvisoria (i.e. con efficacia circoscritta alla perduranza delle sopravvenienze), al fine di assecondare l’interesse del conduttore, parte svantaggiata dalla sopravvenienza.
Avv. Francesco Tassini