Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la recente sentenza n. 13178 del 28 aprile 2020, sono intervenute sulla materia del reato di concorrenza sleale, di cui all’art. 513 bis c.p. (“Chiunque nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se gli atti di concorrenza riguardano un’attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo Stato o da altri enti pubblici“).
Prima di esaminare la sentenza della Corte di Cassazione è bene accennare alla natura di questo reato che, nonostante l’utilizzo della parola “chiunque“, è ritenuto un reato proprio: il soggetto attivo, infatti, deve esercitare un’attività commerciale, industriale e comunque produttiva, anche in via meramente di fatto. Per quanto riguarda l’aggravante di cui al secondo comma, essa è determinata dal fatto di aver ricevuto un aiuto statale e ciò denota una maggiore gravità della condotta criminosa, come accade per esempio nel caso della truffa. Appare evidente la ratio di tutela dell’economia statale.
Le Sezioni Unite, come sempre accade, sono intervenute per dirimere un conflitto di orientamenti creatosi nell’interpretazione di questa fattispecie. Questo il quesito: “se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia e violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente anche il solo compimento di atti di violenza o minaccia comunque idonei a contrastare od ostacolare l’altrui libertà di concorrenza“. In altri termini si deve trovare uniformità di giudizio sulla definizione degli atti di concorrenza di cui alla disposizione sopra riportata e se sia necessaria una qualifica ulteriore alle violenze ed alle minacce, vale a dire quella dell’ambito prettamente concorrenziale. Si tratta in buona sostanza di comprendere il grado di espansione della norma rispetto al novero delle condotte criminose.
Il primo orientamento, recepito dalla Cassazione penale, Sez. III, con sentenza n. 46756 del 3 novembre 2005, è di segno restrittivo ed include solamente gli atti concorrenziali tipici realizzati con mezzi vessatori nei confronti di altri soggetti operanti nello stesso settore. Così decidendo, i giudici di legittimità valorizzarono il contesto dell’epoca in cui la norma fu pubblicata (l’art. 513 bis c.p. è stato inserito nel 1982 con legge n. 646), quando cioè si voleva reagire ai metodi intimidatori tipici della criminalità organizzata e finalizzati al controllo dell’imprenditoria.
Di poco successivo è il secondo orientamento (Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 44169 del 22 ottobre 2008) secondo cui il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia incrimina “qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività“. Lo spostamento del punto di vista è evidente: con questa sentenza la Suprema Corte allarga il campo di applicazione della norma, sia per quanto riguarda le condotte, non più ancorate alla natura tipica dell’attività concorrenziale, che in punto di bene giuridico tutelato. Per quanto concerne questo secondo aspetto si deve sottolineare l’opera di allargamento interpretativo dei giudici che, oltre alla tutela del buon andamento dell’intero sistema economico, pongono la norma anche a presidio della libertà di autodeterminazione del singolo imprenditore nello svolgimento della propria attività.
Terzo, ed ultimo, orientamento, è quello più recente (Cass. pen., Sez. II, 26 marzo 2015, n. 15781) per cui la fattispecie deve avere i connotati degli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c (in sintesi: usare nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con quelli legittimamente usati da altri; diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti altrui idonei a determinare discredito; avvalersi di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”). Si torna, pertanto, a circoscrivere l’ambito di applicazione della norma, operando un richiamo che tende a tipizzare in modo molto preciso la condotta del soggetto agente.
Al fine di dirimere il contrasto, le Sezioni Unite muovono la propria interpretazione dall’analisi di una materia, quella concorrenziale, che ha avuto notevolissimi sviluppi in ambito di legislazione comunitaria, pienamente applicabile nel territorio nazionale anche per il tramite dell’art. 11 Cost., e di legislazione interna, soprattutto con riferimento alla legge n. 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza ed istitutiva dell’AGCM. Il filo conduttore di queste fonti normative è il principio cardine, di derivazione comunitaria, secondo cui la libertà di iniziativa economica e la competizione tra imprese non possano tradursi in atti e comportamento pregiudizievoli per la struttura concorrenziale del mercato; è un limite alla libertà di iniziativa economica, prevista dall’art. 41 Cost., giustificato dalla volontà di impedire l’utilizzo di strumenti sleali.
Perché, però, prendere le mosse da leggi per lo più di ambito civilistico al fine di chiarire un concetto di matrice penale? Sono le stesse Sezioni Unite a rispondere a tale quesito, affermando che il concetto giuridico di “concorrenza” è assente nella materia penale e che l’interpretazione dell’art. 513 bis c.p., rectius della natura degli atti di concorrenza ivi citati, deve necessariamente prendere le mosse dalla pertinente normativa europea ed interna.
Ebbene, il principio di diritto enucleato nella sentenza in commento è il seguente: “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente“. E’ un ritorno all’atipicità, all’allargamento della tutela, alla volontà di disancorarsi da troppi rinvii.
Concludendo e commentando l’esito del ragionamento della Suprema Corte non si può tacere dell’importanza e della delicatezza del tema. La materia della concorrenza poggia le sue radici negli anni ’90 del secolo scorso e affronta un percorso evoluzionistico che ancora oggi non sembra avere fine, sia in punto di tecniche concorrenziali che di legislazione. In quest’ottica è facile comprendere l’importanza della portata di questo pronunciamento, che espande l’area di intervento della materia penale nel campo economico: meritevole di tutela non è solo il mercato inteso in senso ampio, bensì anche il singolo operatore e la sua libertà di autodeterminazione. D’altra parte, però, tale libertà non può esser invocata per attuare pratiche sleali ed in spregio ai competitors.
Avv. Andrea Severini
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la recente sentenza n. 13178 del 28 aprile 2020, sono intervenute sulla materia del reato di concorrenza sleale, di cui all’art. 513 bis c.p. (“Chiunque nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se gli atti di concorrenza riguardano un’attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo Stato o da altri enti pubblici“).
Prima di esaminare la sentenza della Corte di Cassazione è bene accennare alla natura di questo reato che, nonostante l’utilizzo della parola “chiunque“, è ritenuto un reato proprio: il soggetto attivo, infatti, deve esercitare un’attività commerciale, industriale e comunque produttiva, anche in via meramente di fatto. Per quanto riguarda l’aggravante di cui al secondo comma, essa è determinata dal fatto di aver ricevuto un aiuto statale e ciò denota una maggiore gravità della condotta criminosa, come accade per esempio nel caso della truffa. Appare evidente la ratio di tutela dell’economia statale.
Le Sezioni Unite, come sempre accade, sono intervenute per dirimere un conflitto di orientamenti creatosi nell’interpretazione di questa fattispecie. Questo il quesito: “se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia e violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente anche il solo compimento di atti di violenza o minaccia comunque idonei a contrastare od ostacolare l’altrui libertà di concorrenza“. In altri termini si deve trovare uniformità di giudizio sulla definizione degli atti di concorrenza di cui alla disposizione sopra riportata e se sia necessaria una qualifica ulteriore alle violenze ed alle minacce, vale a dire quella dell’ambito prettamente concorrenziale. Si tratta in buona sostanza di comprendere il grado di espansione della norma rispetto al novero delle condotte criminose.
Il primo orientamento, recepito dalla Cassazione penale, Sez. III, con sentenza n. 46756 del 3 novembre 2005, è di segno restrittivo ed include solamente gli atti concorrenziali tipici realizzati con mezzi vessatori nei confronti di altri soggetti operanti nello stesso settore. Così decidendo, i giudici di legittimità valorizzarono il contesto dell’epoca in cui la norma fu pubblicata (l’art. 513 bis c.p. è stato inserito nel 1982 con legge n. 646), quando cioè si voleva reagire ai metodi intimidatori tipici della criminalità organizzata e finalizzati al controllo dell’imprenditoria.
Di poco successivo è il secondo orientamento (Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 44169 del 22 ottobre 2008) secondo cui il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia incrimina “qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività“. Lo spostamento del punto di vista è evidente: con questa sentenza la Suprema Corte allarga il campo di applicazione della norma, sia per quanto riguarda le condotte, non più ancorate alla natura tipica dell’attività concorrenziale, che in punto di bene giuridico tutelato. Per quanto concerne questo secondo aspetto si deve sottolineare l’opera di allargamento interpretativo dei giudici che, oltre alla tutela del buon andamento dell’intero sistema economico, pongono la norma anche a presidio della libertà di autodeterminazione del singolo imprenditore nello svolgimento della propria attività.
Terzo, ed ultimo, orientamento, è quello più recente (Cass. pen., Sez. II, 26 marzo 2015, n. 15781) per cui la fattispecie deve avere i connotati degli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c (in sintesi: usare nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con quelli legittimamente usati da altri; diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti altrui idonei a determinare discredito; avvalersi di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”). Si torna, pertanto, a circoscrivere l’ambito di applicazione della norma, operando un richiamo che tende a tipizzare in modo molto preciso la condotta del soggetto agente.
Al fine di dirimere il contrasto, le Sezioni Unite muovono la propria interpretazione dall’analisi di una materia, quella concorrenziale, che ha avuto notevolissimi sviluppi in ambito di legislazione comunitaria, pienamente applicabile nel territorio nazionale anche per il tramite dell’art. 11 Cost., e di legislazione interna, soprattutto con riferimento alla legge n. 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza ed istitutiva dell’AGCM. Il filo conduttore di queste fonti normative è il principio cardine, di derivazione comunitaria, secondo cui la libertà di iniziativa economica e la competizione tra imprese non possano tradursi in atti e comportamento pregiudizievoli per la struttura concorrenziale del mercato; è un limite alla libertà di iniziativa economica, prevista dall’art. 41 Cost., giustificato dalla volontà di impedire l’utilizzo di strumenti sleali.
Perché, però, prendere le mosse da leggi per lo più di ambito civilistico al fine di chiarire un concetto di matrice penale? Sono le stesse Sezioni Unite a rispondere a tale quesito, affermando che il concetto giuridico di “concorrenza” è assente nella materia penale e che l’interpretazione dell’art. 513 bis c.p., rectius della natura degli atti di concorrenza ivi citati, deve necessariamente prendere le mosse dalla pertinente normativa europea ed interna.
Ebbene, il principio di diritto enucleato nella sentenza in commento è il seguente: “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente“. E’ un ritorno all’atipicità, all’allargamento della tutela, alla volontà di disancorarsi da troppi rinvii.
Concludendo e commentando l’esito del ragionamento della Suprema Corte non si può tacere dell’importanza e della delicatezza del tema. La materia della concorrenza poggia le sue radici negli anni ’90 del secolo scorso e affronta un percorso evoluzionistico che ancora oggi non sembra avere fine, sia in punto di tecniche concorrenziali che di legislazione. In quest’ottica è facile comprendere l’importanza della portata di questo pronunciamento, che espande l’area di intervento della materia penale nel campo economico: meritevole di tutela non è solo il mercato inteso in senso ampio, bensì anche il singolo operatore e la sua libertà di autodeterminazione. D’altra parte, però, tale libertà non può esser invocata per attuare pratiche sleali ed in spregio ai competitors.
Avv. Andrea Severini