L’epidemia del cd. virus Covid-19 che sta flagellando il Paese oramai da diversi mesi ha originato una legislazione emergenziale che, come noto, ha imposto alle imprese ed ai cittadini il blocco pressoché totale delle attività produttive ed economiche, specialmente del settore terziario, all’ovvio fine precauzionale di tentare di contenere il contagio del ‘coronavirus’. Conseguenza indiretta di tale legislazione emergenziale è stato il crollo del fatturato e degli incassi in danno degli imprenditori interessati dalle misure straordinarie di contenimento, i quali hanno accusato una fisiologica ed obiettiva crisi di liquidità scaturita dalla contrazione – o meglio – crollo della domanda di prodotti e servizi da parte della cittadinanza, tendenzialmente confinata in casa. A causa di tale drastica crisi di liquidità, le imprese ed i commercianti direttamente coinvolti sono non di rado costretti a ritardare, sospendere, congelare i pagamenti ai fornitori, e purtroppo – al netto di interventi di sostegno straordinario da parte dello Stato – anche ai dipendenti, generando il cd. effetto di “liquidity crunch”, vale a dire un effetto di contrazione a cascata della liquidità generalizzato a tutti gli operatori del ‘sistema-mercato’.

Nel complesso contesto economico appena tratteggiato – ed in disparte i settori in cui è stata opportunamente prevista una disciplina provvisoria ad hoc (si pensi alla moratoria nel pagamento di rate di mutui e di leasing; al divieto di riduzione degli affidamenti bancari; alla sospensione del pagamento della rate di mutuo cd. prima-casa per lavoratori autonomi e liberi professionisti … ) – dobbiamo domandarci se l’eccezionale situazione venutasi a creare in conseguenza della legislazione emergenziale possa, almeno in parte, giustificare il mancato o ritardato adempimento delle obbligazioni in scadenza.

L’art. 91 del D.L. n. 18/2020 (opportunamente rubricato ‘Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici’) ha aggiunto il comma 6-bis all’art. 3 del D.L. n. 6/2020, il quale testualmente dispone: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Orbene mi sembra che, per tale via, il legislatore abbia tipizzato l’obiettiva rilevanza dell’emergenza Covid-19 in ordine ai due elementi che, in modo adiacente e consequenziale, caratterizzano lo sviluppo patologico dell’obbligazione (i.e. l’inadempimento): in primo luogo, la disciplina emergenziale prescrive in favore del debitore, sotto il profilo strettamente inadempitivo, un’oggettiva causa di non imputabilità dell’inadempimento, ove lo stesso consegua alle misure emergenziali Covid-19, che il giudice del caso concreto ha l’obbligo di valutare. Attenzione: ritengo – opinione già avallata in dottrina (per la giurisprudenza, anche quella d’urgenza, dovremo attendere ancora un po’…) – che tale ‘scriminante’ civilistica possa legittimamente operare solo allorché l’inadempimento consegua direttamente, ovverosia secondo un rapporto eziologico causa-effetto immediato e diretto, alle misure emergenziali anti-Covid19, che si atteggiano in tale contesto alla stregua di ‘factum principis’.

Si tratta, dunque, di una ‘causa di giustificazione’, speciale e contingente rispetto alle disposizioni del codice civile, che rende non imputabile e quindi scusabile il ritardato o mancato adempimento delle obbligazioni, a condizione che questo sia conseguenza immediata e diretta delle misure autoritative per il contenimento dell’epidemia. Si badi che, dal punto di vista più pratico – dunque quello processuale – la prova del nesso di causalità diretta ed immediata tra la misura di contenimento della pandemia e l’inadempimento incombe sul debitore, secondo le coordinate generali di cui all’art. 1218 c.c. (“Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”).

Sulla base di quanto sin qui esposto, non sembra dubbio che, ad esempio, ove la disciplina emergenziale abbia imposto ad un esercente al dettaglio l’interruzione forzosa della propria attività lavorativa, lo stesso potrebbe legittimamente opporre al proprio fornitore all’ingrosso la clausola di salvaguardia sopra illustrata, che lo esonera, per lo meno provvisoriamente, dalla imputabilità di un inadempimento colposo, dunque con facoltà di sospendere i pagamenti di ratei pur già scaduti.

Sotto il profilo, poi, della quantificazione del danno, il richiamo effettuato dalla disposizione in esame (anche) all’art. 1223 c.c. consente di ritenere che, in via gradata rispetto alla totale esclusione di responsabilità, il giudice che decida in ordine al caso concreto può, pur ritenendo che il rispetto delle misure non escluda in toto la responsabilità del debitore, valutare di limitare il quantum dei danni da risarcire al creditore. In tal caso, la clausola in esame si atteggia alla stregua di causa di riduzione del danno da risarcirsi.

Infine, ove il giudice ritenga che l’inadempimento del debitore sia conseguito al rispetto delle misure di contenimento dell’epidemia, tutte le clausole contrattuali disponenti “decadenze o penali” in connessione con un inadempimento imputabile del debitore non possono essere applicate. Per unitarietà di ratio, ritengo che la disposizione valga sia per le clausole speciali che i contraenti abbiano inserito nel contratto in connessione con l’inadempimento del debitore (ad es. una clausola risolutiva espressa, ovvero un termine essenziale per la controprestazione) o col ritardo nell’adempimento (ad es. le clausole prevedenti penali / interessi moratori); sia per le altre clausole generali che la disciplina contrattualistica tipizza in astratto per l’autotutela privatistica dei diritti patrimoniali del creditore (si pensi alla diffida ad adempiere; ovvero alla eccezione di inadempimento).

La normativa specificamente introdotta dal legislatore emergenziale deve essere in ogni caso coordinata con la generale disciplina delle obbligazioni del codice civile. In particolare, l’ipotesi del debitore inadempiente per vicende connesse all’emergenza Covid-19 rientra evidentemente nell’alveo applicativo dell’art. 1256 c.c.: trattandosi (fisiologicamente) di impossibilità temporanea all’adempimento, l’esclusione della responsabilità in capo al debitore inadempiente pel ritardo (dunque la facoltà di sospendere legittimamente la propria prestazione) è garantita solo finché detta impossibilità perdura. Con l’ovvia conseguenza che, in linea tendenziale, il debitore, una volta cessata tale impossibilità, dovrà adempiere la propria prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico, salvi i correttivi eventuali – ricorrendone i presupposti – della eccessiva onerosità sopravvenuta.

Quanto sopra precisato, quid agit se il caso concreto sottoposto ad attenzione non dovesse rientrare nel perimetro applicativo del citato art. 91 del D.L. n. 18/2020, in particolare ove l’inadempimento non dovesse essere conseguenza immediata e diretta delle norme contenitive dell’epidemia Covid-19? Ebbene, in tale ipotesi è doveroso premettere che la questione si presta ad essere esaminata ed interpretata attraverso criteri ermeneutici – e soluzioni – fluidi ed affatto univoci.

In primo luogo, possono trovare applicazione – ovviamente ricorrendone i presupposti, in astratto configurabili nel caso in esame – le generali norme codicistiche in tema di obbligazioni. Si pensi alle fluttuazioni economiche certamente non fisiologiche – recte, non rientranti nella “alea normale del contrattoex art. 1467 c.c. – conseguenti all’emergenza ‘coronavirus’, idonee ad incidere in modo significativo sull’equilibrio sinallagmatico dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita: in tale ipotesi, invero presumibilmente abbastanza diffusa al momento (pensiamo alle fluttuazioni impreviste ed imprevedibili dei carburanti), la parte che deve la prestazione divenuta eccessivamente onerosa potrà domandare la risoluzione del contratto, salva la cd. riduzione ad equità (i.e. equa modifica delle condizioni del contratto) ad opera dell’altro contraente.

In ogni caso, assecondando le più recenti ed avvedute coordinate ermeneutiche, l’art. 1218 c.c. e più in generale l’intera disciplina delle obbligazioni negoziali devono essere reinterpretate alla luce del principio generale di correttezza e buona fede oggettiva, non più solo espressione di una pluralità di disposizioni codicistiche – v. in particolare gli artt. 1175 e 1375 c.c., oltre agli artt. 1337, 1358, e 1366 c.c. – ma declinazione diretta del precetto costituzionale di cui all’art. 2 Cost., che, tra l’altro, dispone in capo a ciascun cittadino l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (politica, economica e) sociale. In merito, la giurisprudenza oramai riconosce concordemente, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata che impone dei “doveri di solidarietà” nei rapporti intersoggettivi tra le parti contraenti, l’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie, che origina, unitamente al canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, un obbligo di “protezione” della controparte allorché intervengano sopravvenienze non contrattualizzate né astrattamente riconducibili all’alveo applicativo dell’art. 1467 ss. c.c. (il quale, come noto, considera solo le sopravvenienze comportanti squilibri economici del sinallagma iniziale).

In sostanza, in caso di mutamento di circostanze che non incida già sull’equilibrio economico inzialmente determinato tra i contraenti, bensì sulla causa concreta che ha indotto le stesse al perfezionamento del contratto (pensiamo oggi al contratto di locazione di locali commerciali perfezionato per incardinare un’attività aziendale, la quale tuttavia sia stata costretta alla provvisoria chiusura, con totale obliterazione degli incassi), può configurarsi un obbligo legale di rinegoziazione delle condizioni contrattuali, quand’anche in via provvisoria (i.e. con efficacia circoscritta alla perduranza delle sopravvenienze), in capo ad entrambi i contraenti, che concretizza l’interesse della parte svantaggiata dalla sopravvenienza: il principio di buona fede, in tale ipotesi, può validamente assurgere a fonte primaria d’integrazione della convenzione negoziale, sinanco prevalente sulle determinazioni contrattuali specialmente pattuite tra le parti, con potenziale sanzione del risarcimento del danno in caso di rifiuto ingiustificato in capo al contraente che al suddetto obbligo di rinegoziazione si sia rifiutato.

Avv. Francesco Tassini